LIBRI DI CUI TRATTEREMO IN QUESTO ANNO (1D Base e Steam)

CONSIGLI DI LETTURA





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SPECIALE GIORNO DELLA MEMORIA

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l rifugio segreto. Memorie dal nascondiglio di Anne Frank

Amsterdam, Olanda. L’indirizzo è Prinsengracht, 263. Ad Anne sembra solo un vecchio edificio affacciato su un canale. Dentro ci sono dei magazzini, ciò che resta di una ditta di confetture e una libreria girevole che cela un mistero. Perché quello non è un luogo come un altro. Anzi, è il posto perfetto per nascondere due famiglie. È il 1942 e quell’alloggio segreto diventa di colpo la nuova casa di Anne Frank. Anne è una ragazzina allegra e spensierata, ha solo tredici anni e il mondo che conosce è sconvolto da una tremenda guerra che sembra travolgere tutti. Lei è il cuore lucente del nascondiglio. È un’adolescente vivace che scrive in un diario ciò che ama, sogna, spera: vivere in un mondo migliore. E il suo incredibile entusiasmo desta l’interesse di un curioso osservatore. Il rifugio segreto. Quel luogo antico e solenne, vivo e ricco di storie, si appassiona davanti al coraggio della piccola Anne. La vede crescere, ridere e soffrire. La incoraggia come può e come riesce: fino alla fine. E anche dopo, quando non resta che una cosa da fare, audace e temeraria al tempo stesso: tramandare la storia di Anne. Perché nessuno possa dimenticarla. Grazie a una voce calda e inedita, capace di raccontare con sincero trasporto gli anni della II Guerra Mondiale, la storia di Anne Frank s’intreccia a quella del rifugio segreto per raccontarci qualcosa di noi stessi.

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video riassuntivi

 

 

 

 

CAPITOLO 1

CAPITOLO 2

CAPITOLO 3

CAPITOLO 4

CAPITOLO 5

CAPITOLO 6

CAPITOLO 7

CAPITOLO 8

 




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La tigre era in trappola. 

Da quando la prima esplosione aveva distrutto il corridoio di passeggio lungo la fossa, camminava in cerchio, ogni ora più vorticosamente, ricalcando nella neve le medesime orme. Emetteva un bruito sordo e profondo, un borbottio dolente che pareva scaturire sin dalle viscere della Terra, confondendosi con i boati e lo stridore delle sirene di allarme.

Un altro razzo aveva colpito la voliera dell’oca selvatica, nel padiglione degli uccelli che era stato il vanto dell’intera Europa, e bombe a grappolo giacevano allineate lungo il muro dell’edificio.

Sotto i bombardamenti, una femmina di gattopardo aveva partorito il suo cucciolo e poco dopo anche un piccolo rinoceronte aveva visto la luce:lo avevano chiamato Kiev.

Dopo centoventi anni di storia, lo zoo Mykolaïv aveva chiuso i cancelli ormai da quattro settimane, senza per questo trovare riparo dalla guerra.

Almeno duecento specie tra quelle presenti erano state inserite nella lista rossa degli animali a rischio di estinzione, ma un’evacuazione della struttura appariva fuori discussione. L’unica strada per Odessa era affollata e insicura e, nonostante l’arrivo imminente della primavera, il freddo non aveva ancora allentato del tutto la sua morsa. Se mai fossero riusciti a scampare alle bombe, elefanti, giraffe e ippopotami avrebbero rischiato di soccombere al gelo.

E in ogni caso non c’erano i mezzi per predisporre l’esodo di migliaia di animali. Nessun Noè. Nessuna arca. Non restava che resistere.

Kentucky, 1936

 

La bibliotecaria e la sua mula lo videro nello stesso istante.

Le orecchie dell’animale scattarono in avanti e si inchiodò così bruscamente che gli zoccoli anteriori slittarono, sparpagliando al suolo i libri che trasportava. Si levò un mulinello di terra e detriti, che punsero gli occhi della donna come tanti piccoli spilli. La mula strattonò la testa per cercare di guardare in alto, indietro, ovunque tranne che verso la cosa che le stava di fronte.

 

Mentre accorciava le redini e stringeva le gambe attorno ai fianchi della mula, incitando di nuovo la cavalcatura, la donna dei libri non riusciva a staccare lo sguardo dalla scena. Scoprendo i lunghi denti insolenti, la bestia sollevò il muso nell’aria che sapeva di pini e il suo raglio vibrante disturbò la montagna insonnolita.

La donna si irrigidì e strattonò di nuovo le redini. Davanti a lei, un corpo oscillava avanti e indietro appeso al grosso ra­mo da cui penzolava. Una corda stretta attorno al collo cigolava per il peso. In cielo, uno stormo di avvoltoi collorosso volava in cerchio, puntando le orribili teste glabre verso la sagoma senza vita, le loro ombre che si rincorrevano circolar­mente sull’erba moribonda.

Dalla terra inaridita si levavano delle strane grida e la bibliotecaria strappò lo sguardo scioccato dal cadavere puntandolo sul terreno.

Accanto a un grosso bidone rovesciato c’era un neonato, il faccino raggrinzito e paonazzo di rabbia.

 

La brezza di montagna soffiava pigra, mutevole, portando con sé il lezzo della morte e della sua lordura. Il ramo schioc­cò, gemendo per il peso. Un calzino insanguinato pen­deva da un piede esanime, azzurrino. La donna guardò inebetita la pelle blu e si coprì la bocca con la mano tremante. Il calzino scivolò a terra, atterrando accanto alla testa del neonato strepitante.Il vento rinforzò, poi cambiò direzione all’improvviso e lambì il calzino come se volesse sollevarlo, ma quello rimase aggrappato ostinatamente al terreno… troppo pesante per essere soffiato via da una semplice brezza estiva.

 

La donna dei libri alzò gli occhi, sollevò la mano che si andava scurendo davanti al viso blu, quasi volesse confrontarne il colore con quello del cadavere impiccato. Esaminò la propria pelle cobalto, poi azzardò ancora un’occhiata al cor­po condannato, abbarbicato come la quercia nera al duro terreno senza tempo del Kentucky cui tanti cercavano disperatamente di sfuggire. Il vento rinforzò, poi cambiò direzione all’improvviso e lambì il calzino come se volesse sollevarlo, ma quello rimase aggrappato ostinatamente al terreno… troppo pesante per essere soffiato via da una semplice brezza estiva.

La donna dei libri alzò gli occhi, sollevò la mano che si andava scurendo davanti al viso blu, quasi volesse confrontarne il colore con quello del cadavere impiccato. Esaminò la propria pelle cobalto, poi azzardò ancora un’occhiata al cor­po condannato, abbarbicato come la quercia nera al duro terreno senza tempo del Kentucky cui tanti cercavano disperatamente di sfuggire.

In un angolo del parcheggio c’era un cane. Aveva il collare, ma niente guinzaglio. Chissà, forse il suo padrone stava facendo la spesa, e lui lo aspettava. Sembrava un cane intelligente, ma era molto magro. A meno che il padrone non fosse rimasto vittima della sciagura, pensò Nakagaki Kazumasa mentre parcheggiava. Erano passati sei mesi da quel giorno, e le persone che nel terremoto o nello tsunami avevano perso la casa vivevano ancora nelleIn un angolo del parcheggio c’era un cane. Aveva il collare, ma niente guinzaglio. Chissà, forse il suo padrone stava facendo la spesa, e lui lo aspettava. Sembrava un cane intelligente, ma era molto magro. A meno che il padrone non fosse rimasto vittima della sciagura, pensò Nakagaki Kazumasa mentre parcheggiava. Erano passati sei mesi da quel giorno, e le persone che nel terremoto o nello tsunami avevano perso la casa vivevano ancora nelle strutture di accoglienza. Gli animali però non erano ammessi, così c’era gente che si arrangiava in macchina col cane o col gatto, pareva. Kazumasa entrò nel convenience store, pagò un caffè, una brioche e un pacchetto di sigarette. Riempito un bicchiere al distributore automatico, uscì, si mise accanto al portacenere nello spazio fumatori e si accese una sigaretta. Poi tolse la brioche dall’involucro e tra una boccata di fumo e l’altra cominciò a staccarne qualche morso. Il cane era ancora lì. Era lì e lo guardava.Be’, però…, pensò Kazumasa, perplesso. All’interno del negozio non aveva visto altri clienti, e nel parcheggio c’era solo la sua macchina. «Dov’è il tuo padrone? È andato in bagno?» chiese al cane. In risposta, il cane gli si avvicinò. Sembrava un pastore tedesco… ma no, era di taglia un po’ troppo piccola, e le orecchie e il naso erano troppo lunghi. Doveva essere un incrocio con qualcos’altro. A pochi centimetri da Kazumasa, il cane si fermò. Alzò il muso ad annusare, ma non era certo l’odore della sigaretta che lo attirava. «Vuoi questa?» chiese Kazumasa al cane che sbavava, mostrandogli la brioche. «Hai fame, vero?» Ne staccò un pezzo, lo mise sul palmo della mano e glielo avvicinò al muso. Quello l’annusò, poi lo mangiò lentamente. «Sì, hai proprio fame, tu. Aspetta qui.» Kazumasa spense la sigaretta, posò il bicchiere di carta sul portacenere e tornò dentro il negozio infilandosi in bocca il resto della brioche. Comprò una confezione di dogfood su cui c’era scritto BASTONCINI DI POLLOAl di là della vetrata, il cane lo seguiva con gli occhi. Indicandolo, Kazumasa chiese alla cassiera: «Il suo padrone dov’è?» La donna gettò un’occhiata verso il parcheggio. «Non saprei» rispose con poco interesse. «È lì da stamattina. Pensavo di chiamare il canile municipale, più tardi. «Ah.» Kazumasa pagò e tornò allo spazio fumatori. Il cane mosse lentamente la coda.

 ottobre gli alberi erano gialli. Poi gli orologi tornavano un'ora indietro e arrivavano i venti di novembre, soffiavano senza sosta e spogliavano i rami. Nella cittadina di New Ross i camini buttavano fumo, che svaniva dileguandosi in lunghi fili lanuginosi prima di disperdersi sulle banchine, e ben presto il fiume Barrow, scuro come birra, si gonfiava di pioggia. Perlopiù la gente sopportava il maltempo, scontenta: bottegai e artigiani, uomini e donne alle poste e in coda per la disoccupazione, al mercato, al caffè e al supermercato, alla sala bingo, nei pub e in friggitoria non facevano che parlare, ciascuno a modo suo, del freddo e di quanto era piovuto, domandandosi se fosse normale - perché non era mica una cosa normale, eh? - e comunque non ci si credeva, ecco un'altra giornata di freddo barbino, l'ennesima. I bambini si tiravano il cappuccio sulla testa prima di affrontare il percorso fino a scuola, mentre le madri, che ormai ci avevano fatto il callo a correre a testa bassa alla corda del bucato, ammesso che ancora osassero stendere fuori, nemmeno ci speravano di avere anche solo una camicia asciutta prima di sera. E poi scendeva la notte e ancora una volta gelava, e lame di freddo si infilavano sotto le porte tagliando le gambe a chi ancora si inginocchiava a recitare il rosario.

 

Nel suo deposito, Bill Furlong, il commerciante di carbone e legname, si fregava le mani, dicendo che se andava avanti così presto avrebbero dovuto cambiare le gomme al camion. - Fa avanti e indietro tutto il giorno, - disse ai suoi uomini. - C'è il caso che tra un po' ce le ritroviamo consumate fino ai cerchioni. Ed era vero: un cliente non faceva in tempo a uscire dal deposito che subito ne arrivava fresco fresco un altro, oppure suonava il telefono, e quasi tutti volevano una consegna rapida se non immediata, e no, non andava bene la settimana dopo. Furlong vendeva carbone, torba, antracite, carbonella e legna. I clienti ne ordinavano un quintale, mezzo quintale, una tonnellata o un'intera camionata. Vendeva anche formelle di torba imballate, legna minuta e bombole a gas. Peggio di tutto era il carbone, e in inverno toccava andare a ritirarlo sulle banchine una volta al mese. Gli uomini ci mettevano due giorni pieni per caricarlo, trasportarlo e, una volta tornati al deposito, smistarlo e pesarlo tutto. Nel frattempo i battellieri polacchi e russi, che se ne andavano in giro per la città con i loro berretti di pelo e i loro cappottoni abbottonati, senza quasi spiccicare una parola in inglese, erano una bella novità. In quei periodi di intenso lavoro, era Furlong a fare quasi tutte le consegne, lasciando i suoi uomini a prendere gli ordini e a tagliare e spaccare in due i carichi di alberi abbattuti che portavano i coltivatori.

 

Per tutta la mattina si sentiva un gran segare e spalare, ma quando suonava la campana dell'Angelus, a mezzogiorno, gli uomini posavano gli attrezzi, si lavavano via il nero dalle mani e se ne andavano da Kehoe, dove li aspettava un pasto caldo completo di zuppa, e fish & chips il venerdì. "Sacco vuoto non sta in piedi", diceva sempre la signora Kehoe mentre, dietro il nuovo banco del buffet, tagliava la carne e scodellava verdura e purè con i suoi lunghi cucchiai di metallo. Gli uomini si sedevano, contenti di togliersi il freddo di dosso e riempirsi la pancia prima di farsi una fumata e affrontare di nuovo il freddo che faceva fuori.

 

Furlong veniva dal niente. Meno di niente, avrebbe detto qualcuno. Sua madre era rimasta incinta a sedici anni mentre lavorava come domestica dalla signora Wilson, la vedova protestante che abitava nella grande casa padronale qualche chilometro fuori città. Quando venne fuori il pasticcio, e la famiglia chiarì che non avrebbe più avuto a che fare con lei, la signora Wilson, invece di metterla alla porta, le disse che poteva rimanere a lavorare lì. La mattina in cui Furlong fu partorito, fu la signora Wilson a far portare sua madre all'ospedale, e in seguito a farli accompagnare a casa entrambi. Era il primo aprile del 1946, e qualcuno disse che il bambino era destinato a farsi infinocchiare da tutti.

 

Mi piace, anche se su corso Vittorio Emanuele qualche volta si sentono gli spari.

Mi piace, anche se odio l’odore di gallina che invade la casa quando è domenica mattina. Odio quel brodo che puzza di pollame, e lo mando giù con gli occhi chiusi: guai a non mangiare in casa Atria.

Mi piace, anche se per mamma non bisogna mai giocare, mai sedersi per terra, mai camminare a piedi scalzi, mai correre con gli altri bambini, mai perdere tempo con i giocattoli. Bisogna mettere i vestiti che compra lei e stare fermi, come le belle statuine.

Ma io non sono una bella statuina.

Questo mondo mi piace perché papà mi vuole bene. Sorride, quando mi vede. Poi, mi fa tanti regali.

Un giorno è tornato a casa e mi ha detto: — Picciridda, guarda qua.

Ha aperto un grande sacchetto e mi ha dato un pacco rettangolare. L’ho scartato: era una pianola elettrica. I tasti erano gialli e rossi. Rosa la pianola. La mamma si è messa a sbraitare, a dire: — Ma chistu costa assai, santo Vito!

San Vito è il patrono di Partanna, e Vito è anche il nome di papà. Quando mamma dice così non capisco mai a chi si rivolga. Forse vede mio padre come un santo, forse no.

Mi piace questo mondo, perché ha i colori. Forse mi piacciono i colori perché sono nata a inizio settembre e a inizio settembre i colori sembrano quelli di un frutto maturo. A settembre l’estate è come una bolla di sapone, gonfia di tutte le sue tinte. Poi scoppia, e arriva l’autunno.

Mi piacciono anche i colori della pianola. Anche se mamma l’ha messa in una credenza e non mi permette di suonarla. Dice che se ci gioco la rompo e se la rompo sono soldi sprecati.

Questo mondo mi piace perché c’è papà, ma c’è anche Nicola. Mio fratello. È più grande di me, e più grande anche di Annamaria. È bello come il sole.

Questo mondo mi piace perché papà e Nicola non sono come gli altri: non sono infami. E si fanno rispettare.

A Partanna, a papà gli portano tutti rispetto. Lui ha tanto onore. Tutti lo ringraziano, tutti lo salutano, tutti lo chiamano “Vossia”. Dicono che Nicola è sulla buona strada, e diventerà come lui.

Questo mondo mi piace perché odio i pavimenti di marmo del corridoio; ma amo il divano a fiori del soggiorno. L’ha scelto papà. Mi piacciono i fiori. Vorrei essere un fiore di quel divano.

Volevo nascere fiore.

Sbucare debole dal terreno, crescere e diventare bocciolo e poi schiudermi al sole.


Hai libri da suggerire ai compagni? Scrivilo qui sotto!!!


Commenti: 1
  • #1

    Sofia Tartaglia (martedì, 29 novembre 2022 12:18)

    La Verità sul caso Harry Quebert

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