Lo cunto de li cunti ovvero Lo trattenemiento de peccerille è una raccolta di 50 fiabe in lingua napoletana scritte da Giambattista Basile, edite fra il 1634 e il 1636 a Napoli. L'opera, nota anche col titolo di Pentamerone (cinque giornate), è costituita da 50 fiabe, raccontate da 10 novellatrici in 5 giorni. Le 50 fiabe sono collocate in una cornice che segue il modello del Decameron di Boccaccio, anche se diversi sono il linguaggio e i temi trattati. L'opera ha le caratteristiche della novella medievale, che subisce però una trasformazione orientandosi verso toni fiabeschi e attingendo a motivi popolari. Malgrado la materia fiabesca e il sottotitolo, la raccolta è destinata a un pubblico di adulti poiché tratta temi complessi.Tra le novelle più famose vi è la sesta della prima giornata: La gatta Cenerentola è la prima e la più antica versione di Cenerentola. Lo stesso racconto popolare (come altri) sarà ripreso con diverse varianti dopo alcuni decenni da Charles Perrault  e nel XIX secolo dai Fratelli Grimm. L'opera può essere considerata come il testo capostipite del genere europeo del racconto fiabesco moderno. (Wikipedia)


Le tre favole qui sotto, riprese e intrecciate nel film, sono rese in  italiano per agevolarne la lettura (pur limitando in parte la ricchezza e la carica ironica e umoristica della versione originale). Notate le differenze con la trasposizione cinematografica? D'altra parte i racconti di Basile erano concepiti affinché potessero essere modificati e arricchiti di particolari, secondo le modalità della tradizione orale, dalla fantasia di chiunque volesse attingervi. (La prof.)

C'era una volta un certo Re di Lungapergola, chiamato Iannone. Desideroso di avere un figlio, faceva pregare santi e madonne che facessero restare incinta la moglie; e, per convincerli a farsi concedere questa grazia, era così pieno di carità con i pellegrini, che avrebbe dato anche gli occhi. Però, infine, vedendo che le cose andavano per le lunghe e che non si vedeva nessun effetto, chiuse la porta del palazzo a tutti e, anche se qualcuno solo si avvicinava, gli faceva sparare addosso.


Una volta, all'improvviso passò da quelle parti un gran santone con la barba bianca, che, non conoscendo il cambiamento nel comportamento del Re, oppure conoscendolo, voleva porvi rimedio, andò a trovare Iannone e gli chiese ospitalità. Il Re, con una brutta cera e con una faccia accigliata, gli disse: "Se non hai altro che questa candela, ti puoi coricare al buio! Passò il tempo in cui Berta filava; adesso hanno aperto gli occhi i gattini; e la mamma non c'è più!" E, avendo il vecchio chiesto la causa del mutamento, il Re rispose: "Io, per il desiderio di avere un figlio, ho speso e sparso con chi andava e chi veniva, ho persino gettato i miei averi. Ma, alla fine, visto che ci perdevo il sonno e la fatica, ho rinunciato a chiuso il portone". "Se è solo per questo", disse quel vecchio, "tranquillizzati, che ti faccio subito ingravidare la moglie, o tu mi taglierai le orecchie!" "Se farai questo", disse il Re, "ti prometto pure la metà del regno". E il vecchio: "Allora, ascoltami bene: se vuoi avere un figlio da tua moglie, fai prendere il cuore di un drago marino, e fallo cucinare da una zitella vergine. Questa, soltanto all'odore di quella pentola, si troverà con la pancia gonfia. Poi, quando quel cuore sarà cotto, dallo da mangiare alla regina, che subito uscirà incinta come se fossero passati nove mesi". "Ma come può avvenire questa cosa?", rispose il Re. "In verità mi sembra troppo grossa per poterci credere". "Non ti meravigliare", disse il vecchio, "perché se leggi una favola antica, trovi che Giunone, passando per certi campi su un certo fiore, si sentì gonfiare la pancia e ebbe dei figli." "Se è così", disse ancora il Re, "mandiamo subito a prendere questo cuore di dragone e, strappatogli il cuore, lo portarono al Re.


Il Re lo fece cucinare a una bella damigella. Questa, chiusasi in camera, appena mise il cuore sul fuoco e uscì il fumo del primo bollore, non solo uscì incinta lei, ma si gonfiarono anche tutti i mobili della casa. E dopo pochi giorni, partorirono; il letto fece un lettino, la cassa una cassetta, le sedie fecero le sedioline, il tavolo un tavolino, e il vaso da notte un vasino verniciato così bene che era un gioiello. Ma non appena il cuore fu cotto, la regina a malapena lo provò, che in niente si sentì gonfiare la pancia. Poi, in quattro giorni, lei e la damigella fecero ognuna un bel maschietto, così somigliante l'uno all'altro, che non si distinguevano. Questi due crebbero insieme con tanto amore che non sapevano stare l'uno senza l'altro; ed era tanto forte il bene che si volevano, che la regina cominciò a diventare gelosa, perché il figlio mostrava più affetto per il figlio della sua cameriera che per lei, e non sapeva come fare per togliersi questo ragazzo dagli occhi.


Un bel giorno, volendo il principe andare a caccia con il suo compagno, fece accendere il fuoco nel camino della sua stanza, e cominciò a sciogliere il piombo per fare le pallottole. Ma si accorse che gli mancava non so che cosa, e andò a cercarla. Frattanto, entrò la regina per vedere che cosa faceva il figlio e, trovato solo Candeloro, il figlio della damigella, pensando di toglierlo da questo mondo, gli gettò in faccia una pallottoliera rovente. Il ragazzo si abbassò e la pallottoliera lo colse su un sopracciglio e gli fece una brutta ferita. La regina gli avrebbe dato un altro colpo, quando arrivò Fonzo, suo figlio; lei, allora, facendo finta di essere venuta a vedere come stava, gli fece quattro carezze fredde, e se ne andò. Candeloro, che nel frattempo si era messo un cappello sugli occhi per non far capire a Fonzo quel che era successo, stette fermo e zitto, anche se soffriva per il bruciore. Però, quando finì di preparare le pallottole, chiese licenza al principe, dicendo di voler andar via dal paese. A questa novità Fonzo si meravigliò perché non ne avevano mai parlato prima, allora chiese il perché di questa decisione. E Candeloro rispose: "Non chiedermi altro, Fonzo mio: ti basti sapere solo che sono costretto a partire; e il Cielo sa, se, partendo, da te che sei il cuore mio, l'anima si divide da questo petto, lo spirito si allontana da questo corpo, e il sangue se ne esce da queste vene. Ma, poiché non si può fare altrimenti, stammi bene e ricordati di me".


Così, abbracciandosi e piangendo, Candeloro si avviò verso la sua camera, prese un'armatura e una spada, che era stata partorita da uno spadone al tempo in cui si cucinò quel cuore, e, armatosi di tutto punto, infine prese pure un cavallo dalla stalla. Stava per mettere il piede sulla staffa, quando arrivò Fonzo piangendo e gli disse che, se proprio era deciso ad abbandonarlo, perlomeno gli lasciasse un segno del suo amore, un segno che potesse alleviare il dolore per la sua assenza. Candeloro mise mano al pugnale e, piantatolo a terra, subito si concretizzò una bella fontana. E disse: "Questo è il miglior ricordo che posso lasciarti, perché da come scorre questa fontana saprai come scorre la mia vita. Se la vedrai scendere chiara, vuol dire che anch'io starò sereno e tranquillo; se l'acqua sarà scura, immagina che sto vivendo qualche pericolo; se la vedrai secca (Dio non voglia!) sappi che l'olio della mia lampada sarà finito e io sarò arrivato alla gabella dovuta alla Natura". Poi mise mano alla spada, dette un colpo a terra e fece spuntare una pianta di mortella, dicendo: "Fin quando vedrai questa pianta verde, sarò anch'io vivo e vegeto; se la vedi appassita, pensa che non vanno bene le mie avventure; se poi si seccherà, puoi recitare il requiem per Candeloro tuo". E, abbracciatolo un'altra volta, partì.


Cammina cammina, dopo altre avventure, quali litigi di cocchieri, imbrogli di osti, pagamenti di doganieri ed altri pericoli, giunse in un regno, nel momento in cui si svolgeva un bellissimo torneo, e al vincitore si prometteva la figlia del Re. Candeloro si presentò per partecipare, e si comportò così valorosamente che batté tutti i cavalieri venuti da diverse parti per guadagnarsi la gloria. Per questo, alla fine, gli fu data in moglie Fenizia, la figlia del Re, e si fece una gran festa. Dopo i festeggiamenti per il matrimonio, gli sposi rimasero in pace per qualche mese, finché a Candeloro non venne la nostalgia di andare a caccia. Ma il Re gli disse: "Stai attento, genero mio!Vedi che non ti cecasse un diavolo! Apri bene gli occhi, che in questi boschi gira un diavolo d'orco, che ogni giorno cambia aspetto, ora apparendo come lupo, ora come leone, ora sotto forma di cervo, adesso di asino, ora di un animale ora di un altro; e, con mille stratagemmi, si porta dietro tutti i poverelli che incontra. Li fa entrare in una grotta, e là li mangia. Perciò, figlio mio, non mettere a rischio la tua salute, che ci lasci la pelle". Candeloro, che aveva lasciato la paura nel ventre della mamma, non si curò dei consigli del suocero; e, non appena il Sole con la scopa dei suoi raggi tolse la fuliggine della notte, andò a caccia. Giunto in un bosco, dove, sotto la tettoia delle foglie, si riunivano le ombre per fare comunella e per congiurare contro il Sole, l'orco lo vide e si trasformò in una bella cerva. Candeloro cominciò a darle la caccia; ma la cerva lo fece passare da una parte all'altra, fino a farlo arrivare nel fitto del bosco. Qua l'orco fece venire un tale acquazzone e tanta neve che pareva che il cielo se ne cadesse; e allora, trovandosi il giovane davanti alla grotta dell'orco, vi entrò per ripararsi. Poi, rannicchiato per il freddo, riunì della legna che si trovava lì dentro e accese un grande fuoco. Mentre si stava riscaldando e asciugando i panni, ecco davanti alla bocca della grotta, quella cerva che, con voce pietosa, disse: "Oh signor cavaliere, dammi licenza che possa scaldarmi un poco, ché sono intirizzita dal freddo". Candeloro, che era cortese, disse: "Accostati, che sei la benvenuta". "Io vengo", rispose la cerva, "ma ho paura che tu possa poi uccidermi". "Non dubitare, avvicinati, che hai la mia parola" "Se vuoi che venga" insistette la cerva "lega questi cani, che non mi facciano male, e lega pure il cavallo, che non mi dia qualche calcio". E Candeloro legò i cani e il cavallo. "Sì, adesso mi sento più sicura", fece ancora l'animale. "Ma se non attacchi pure la spada, io ti giuro che non entro". E Candeloro, che voleva divertirsi ad addomesticare la cerva, fissò pure la spada. Allora l'orco, appena vide Candeloro senza più difese, riprese subito il suo aspetto; e, afferratolo, lo gettò in una fossa che si trovava in fondo alla grotta, e lo coprì con una pietra per mangiarselo.


Fonzo, intanto, che mattina e sera non mancava mai di fare una visita alla fontana e alla mortella per avere notizie della situazione di Candeloro, una volta che vide l'acqua torbida e al pianta afflosciata, subito pensò che il suo amico si trovava in pericolo. Allora, desideroso di portargli aiuto, senza chiedere nemmeno licenza alla mamma e al padre, si armò per bene, prese due cani fatati, montò a cavallo e si avviò per il mondo. Girò e girò, ora da una parte e ora da un'altra, fino a che arrivò proprio in quel regno. Qui trovò tutta la città in lutto per la creduta morte di Candeloro. Ma, non appena mise piede a corte, ognuno lo scambiò per Candeloro stesso, tanta era la somiglianza tra i due, e tutti corsero dalla moglie, chiedendole ricompensa per la buona notizia che le portavano.


Fenizia si precipitò per le scale, abbracciò Fonzo e gli disse: "Marito mio, cuore mio, dove sei stato per tanti giorni?"


A queste parole Fonzo capì immediatamente che Candeloro era arrivato in questa terra e poi se n'era partito, e allora pensò di interrogare abilmente la principessa per capire dove poteva trovarsi il suo amico. Infatti, sentendo dire che per questa maledetta caccia si era messo nel pericolo di essere trovato da un orco assai crudele con gli uomini, pensò subito che il suo amico era capitato proprio là. Comunque, stette zitto, e, poiché si era fatta notte, andò a coricarsi. Però, quando fu a letto, facendo finta di aver fatto voto a Diana di non toccare la moglie dell'amico per quella notte, mise la spada sfoderata tra sé e Fenizia; e aspettò che il sole uscisse dalle caramelle purgative d'arancio del cielo, per fargli cacciare via le ombre della notte. E allora, di prima mattina, alzatosi dal letto, non poterono trattenerlo né le preghiere di Fenizia né l'ordine del Re, e volle andare a caccia. Salito a cavallo, con i due cani fatati, arrivò nel bosco dove gli capitò quel che era successo a Candeloro. Entrato nella grotta, vide le armi di Candeloro, il cane e il cavallo legati, e fu certo che l'amico doveva trovarsi proprio là. Ma, quando la cerva lo pregò di legare le armi, i cani e il cavallo, lui glieli lanciò addosso, e questi la fecero in mille pezzi. A questo punto Fonzo cercò di capire dove si poteva trovare l'amico, quando sentì un lamento provenire dal fondo di quel fosso. Allora corse, alzò la pietra e finalmente trovò Candeloro con altri giovani che l'orco aveva messo ad ingrassare là sotto. Così i due si abbracciarono con grande gioia, si baciarono, e, piangendo per la felicità, tornarono al palazzo.


Fenizia, quando si vide davanti quei due gemelli, non sapeva scegliere fra i due chi era suo marito: però, alzato il cappello di Candeloro, vide la cicatrice di quella ferita, lo riconobbe e l'abbracciò. Fonzo rimase a corte per un mese, divertendosi in quel paese; ma poi volle rimpatriare e tornare a casa sua. Approfittando di questo, Candeloro mandò una lettera alla mamma, invitandola a partecipare alle sue grandezze; la mamma si mise in viaggio e così fece. Da quel giorno non volle sentire più parlare né di cani né di caccia, ricordandosi del detto:


Amaro chi a sue spese si castiga.

LA VECCHIA SCORTICATA


ln un giardino del regno di Roccaforte vivevano due vecchiette mostruose, con capelli ingarbugliati e ingrifati, la faccia grinzosa, pallida e bitorzoluta, la bocca storta, la barba da capra e la gobba, i piedi a uncino. Per nascondersi dal Sole vivevano rintanate in un basso sotto le finestre del re, ma si lamentavano di farsi continuamente male, di graffiarsi, di essere sempre infastidite da qualcosa. Poiché si lagnavano di tutto, il re le credette delicate e morbide e si incuriosì di scoprire chi fossero queste fanciulle dalla pelle così delicata.

 

Iniziò a dire: Dove ti nascondi gioiello, meraviglia, delizia? Scopriti al sole, non nasconderti alla mia vista, fammi sentire la tua voce. Ma le vecchie avevano le orecchie otturate. Ciò aumentava la bramosia del re, preso dalla tortura amorosa, che si mise alla ricerca della chiave per aprire la cassettina dei gioielli che gli venivano negati. Continuava a inviare suppliche, ma inutilmente. Le vecchie decisero così di non lasciarsi sfuggire questo uccello che non chiedeva di meglio che di essere messo in trappola. Così gli promisero, parlando dal buco della serratura, che di lì a otto giorni gli avrebbero mostrato il dito mignolo.

 

ll re che, da esperto soldato, sapeva che le fortezze si conquistano poco alla volta, accettò la proposta, sperando di conquistare, un dito alla volta, la fortezza. Aspettò così otto giorni per scoprire l’ottava meraviglia del mondo. Nel frattempo le vecchiette si succhiavano il dito per decidere quale delle due lo avesse più liscio, per mostrarlo al re. Costui contava i giorni, le notti, le ore e i minuti, pregando il Sole di spuntare presto e alla Notte di fargli vedere la luce, al Tempo di non procedere con le scarpe di piombo.

 

 

Giunse finalmente l’ora tanto desiderata e il re in persona si recò al giardino e busso. La più vecchia delle due infilò nel buco della serratura il suo dito, che per il re divenne il fiammifero che accese le sue brame, il bastone che gli stordì i pensieri. Lo teneva in mano e lo baciava e lo riempiva di dolci parole: Perché sei così dura e ostinata, che non vuoi commuoverti ai miei lamenti? Se mi hai mostrato il dito, ora puoi mostrarmi il viso e farmi deliziare. Esci fuori da questo porcile e prendimi. Io sono il re e posso darti tutto. Ma voglio ancora chiederti con le buone ciò che potrei prendere con le cattive. La vecchia, con la vocina di una gatta scorticata, disse: Signore mio, degnatevi di scendere dallo scettro alla stalla, dagli sfarzi agli stracci, perché non voglio più oppormi ai desideri di un gran re. Però vi chiedo, pur essendo pronta alle vostre voglie, come pegno di affetto, di essere ricevuta nel vostro letto la notte di nozze senza candela, perché non ho il coraggio di mostrarmi nuda. Il re giurò che  l’avrebbe accontentata.

 

Giunta la notte, la vecchia, tiratesi tutte le pellecchie del corpo e legate dietro le spalle, legandolo con lo spago, giunse al buio a casa del re e, accompagnata dal cameriere nella stanza regale, toltisi gli stracci, si gettò nuda nel letto. Intanto il re si era talmente profumato da non riuscire a sentire l’alito puzzolente e l’odore di vecchiume di quella bruttina. Appena si coricò e cominciò ad accarezzarla, ma si accorse subito che la pelle era avvizzita, moscia e piena di vesciche. Non volle ancora dir nulla.

 

Ne restò sconcertato, ma  non volle per il momento dire niente, per accertarsi meglio del fatto, finse di non accorgersene. Appena la vecchia si addormentò, il re accese una fiammella e sotto le lenzuola non trovò una ninfa, ma un'arpìa e montò in tale furia da chiedere ai suoi servi di gettarla giù da una finestra. La poveretta gli ricordava di non essere stata lei ad ingannarlo, perché era stato lui a volere tutto ciò, ma non poté evitare la punizione. Per fortuna, con tutto il groviglio di capelli, cadde su un cespuglio di rovi e non si fece quasi niente.

 

Durante il mattino passarono di lì alcune fate che non avevano mai parlato e mai riso. Vedendo la vecchiaccia appesa, prima scoppiarono a ridere, poi decisero di donarle ciascuna una magia e la trasformarono in una giovane bella, ricca, nobile e virtuosa, vestita con drappi d’oro e piena di gioielli, circondata da tanti servi. Nel frattempo il re si era svegliato e cercò di scoprire cosa fosse accaduto alla vecchia e rimase a bocca aperta a contemplare quel ben pezzo di ragazza, quei capelli che facevano invidia al Sole, quelle ciglia che bersagliavano i cuori, quegli occhi e quelle labbra adorabili. Vide anche i lussuosi abiti e i ricchi gioielli che la ricoprivano e si chiese che cosa fosse successo per essersi così stupidamente sbagliato sul conto della giovane.

 

Corse nel giardino e, gettandosi ai suoi piedi, le confessò il suo amore ardente, la sua bramosia; le chiese pietà e misericordia e la pregò di lasciargli qualche speranza.

La donna, alla fine, lo accettò per marito. Così entrarono nel palazzo reale, dove subito fu apparecchiato un grandissimo banchetto e furono mandate a invitare tutte le gentildonne del paese, Tra le altre, la sposa vecchia volle che venisse anche la sorella. Ma fu difficilissimo convincerla e portarla al convito, tanto aveva paura. Dopo essersi convinta e aver visto la sorella così trasformata, fu felice della sua fortuna.

 

Ma la povera vecchia  aveva invidia per i bei lineamenti e la pelle liscia e morbida della sorella e ogni tanto le chiedeva: Che ne hai fatto della cotenna? Il re si meravigliava di queste domande, ma la sua sposa gli diceva che la sorella voleva assaggiare delle salse.  La vecchia ancora faceva domande imbarazzanti e la sposina, per non far capire nulla al re, gli chiedeva che venissero serviti i dolci.

La vecchia, che aveva l’angoscia in corpo, tornò a porre nuove domande, finché la sorella rispose: Mi sono fatta scorticare, sorella mia.  L’invidiosa pensò di tentare anche lei la stessa fortuna per godere la sua parte di felicità.

 

Corse subito da un barbiere, gli diede cinquanta ducati e gli chiese di scorticarla dalla testa ai piedi. Il barbiere rifiutò, credendola pazza, ma la vecchia lo convinse promettendogli anche un premio se fosse riuscita nel suo intento. Lo incoraggiò così a prendere i ferri in mano, per la fortuna di entrambi. Il barbiere, dopo aver litigato e protestato, alla fine accettò; la legò a una panca e cominciò a fare macello di quella scorza nera mentre la donna, facendo coraggio a se stessa, diceva: Chi bella vuol apparire, guai e pene deve patire! Il barbiere continuava a mandarla in rovina tagliuzzandole la pelle fino all’ombelico. La poveretta perse tutto il suo sangue e, con esso, la sua forza e scoprì a sue spese che:

"la invidia, figlio mio, distrugge se stessa"

LA PULCE 


C' era una volta il re di Altomonte che fu pizzicato da una pulce: l'acchiappò con gran destrezza e la trovò tanto bella che non volle eseguire la sentenza sul letto dell'unghia. E allora mise in una caraffa la pulce, che ogni giorno andava a nutrire col sangue del suo braccio. Questa pulce aveva una tale tendenza a crescere che in capo a sette mesi le si dovette cambiare posto, e alla fine era diventata grossa come un agnello castrato. Di fronte a questo fenomeno, il re la fece scuoiare, e conciata la pelle, emanò un bando: chi avesse capito di che animale era quella pelle avrebbe ottenuto la mano di sua figlia. Appena il manifesto fu pubblicato cominciò ad arrivare gente a frotte, venivano dal culo del mondo per sottoporsi a questo esame e tentare la fortuna: chi diceva che era la pelle di un Gatto mammone, chi di un Lupo cerviero, chi di Coccodrillo, chi di un animale e chi di un altro, ma tutti erano lontani mille miglia dalla soluzione, e nessuno centrava il bersaglio. Alla fine arrivò un orco a questa prova di anatomia, un orco che era l'essere più deforme del mondo, e nel vederlo anche al giovane eroe più audace del mondo sarebbero venuti il tremito, la cacarella, i vermi e la pelle d'oca. E questo orco appena arrivò si mise a girare intorno alla pelle e ad annusare, poi fece centro dicendo: 

- Questa pelle è dell'arcifanfano delle pulci.

Vedendo che l'orco aveva dato la risposta esatta, il re, per non mancare alla parola data, mandò a chiamare sua figlia Porziella, che non vedevi altro che bianco latte e rosso sangue, e la vedevi fiorire sotto i tuoi occhi, diritta come un fuso, da quanto era bella. Il re le disse:

- Figlia mia, tu sai del bando che ho emanato, e sai chi sono io, alla fine non posso rimangiarmi la promessa, anche se mi si spezza il cuore: chi avrebbe mai potuto immaginare che il premio sarebbe toccato a un orco? Ma siccome non si muove foglia che Dio non voglia, bisogna credere che la celebrazione di questo matrimonio sia voluta in cielo, per poi succedere quaggiù sotto. Insomma, abbi pazienza, e se sei una figlia benedetta, non contrariare il tuo babbo, e il cuore mi dice che ti contenterai, perché tante volte in una giara di pietra grezza ci si trovano tesori. 

Sentendo questa crudele decisione, Porziella vide tutto buio, il viso le diventò giallognolo, le caddero le labbra, le gambe le tremavano, e mancò poco che facesse volare il falcone dell'anima all'inseguimento della quaglia del dolore. Alla fine si sciolse in pianto e facendo esplodere la sua voce disse al padre:

- Quale danno mai ho fatto al tuo nome, da meritare questa pena, quali parole cattive ti ho rivolto, che mi consegnasti nelle mani di questo bruto? O disgraziata Porziella, come una donnola deliberatamente mandata in gola al rospo! O misera pecorella generata da un lupo mannaro! Questo è l'affetto che nutri per il tuo sangue? Questa è la prova d'amore per me che chiamavi Bambolina dell'anima mia? In questo modo ti scrosti dal cuore colei che ha il tuo stesso sangue? Così elimini dalla tua vista quella che era la pupilla dei tuoi occhi? O padre, padre crudele, tu non devi essere nato da una creatura umana, le orche marine ti hanno dato il loro sangue, le gatte selvatiche ti hanno dato il latte. Ma perché ti paragono agli animali del mare o della terra? Tutti gli animali amano le loro creature, tu solo, snaturato, sei schifato dalla tua discendenza, sei l'unico a provar disgusto per una figlia! Quanto sarebbe stato meglio se la mamma mi avesse strangolata, se la culla fosse stata il mio letto di morte, se la poppa della balia fosse stata una vescica piena di veleno, se le fasce fossero state nodi scorsoi, se il sonaglio che mi fu appeso al collo fosse stato una macina! Sempre meglio che farmi arrivare a questo giorno sciagurato, dove mi dovrò vedere carezzata dalla mano di questa Arpia, abbracciata da due stinchi d'Orso, baciata da un paio di zanne di porco. 

Voleva parlare ancora, quando esplose la collera del re:

- Trattieni l'acido e l'amaro, perché lo zucchero costa caro! Rallenta, perché i brocchieri sono di pioppo! Chiudi la bocca, ché te ne escono schifezze! Sta' zitta, non fiatare, perché morsichi troppo, linguacciuta e biforcuta! Quello che faccio io è ben fatto, non insegnare al padre come si fanno i figli, abbozzala e ficcati la lingua nel didietro, e non irritarmi al punto che esploda, che se ti metto le mani addosso non ti resta nemmeno una ciocca di capelli, e ti tocca masticare il pavimento con i denti! Ma guarda questo fiato del mio culo che vuol fare l'uomo, e dettare legge a suo padre! Ma da quando in qua una con la bocca che puzza ancora di latte ha da ridire sulle mie decisioni? Presto, prendi la sua mano e parti immediatamente verso casa tua, perché non voglio vedermi davanti questa faccia sfrontata e presuntuosa nemmeno per un altro quarto d'ora.

La povera Porziella, che vide a che punto era arrivata, con la faccia di un condannato a morte, gli occhi di un indemoniato, la bocca di chi ha preso la purga, il cuore di chi sta fra l'incudine e il martello, prese per mano l'orco, che senza altra scorta o corteo la trascinò in un bosco, dove gli alberi facevano riparo al prato, perché il sole non lo scoprisse, i fiumi si lamentavano, che dovendo camminare nel buio battevano contro le pietre, e gli animali selvatici godevano della libertà senza nemmeno pagare una multa, e si muovevano al sicuro per quelle macchie,  dove nessuno mai arrivava, a meno che non avesse sbagliato strada. Nel posto nero come una ciminiera accesa, spaventoso come la bocca dell'inferno, c'era la casa dell'orco, tutta tappezzata e adornata di ossa degli uomini che lui aveva divorato. Chi è cristiano consideri ora il tremolio, il tuffo al cuore, la paura, lo spavento, il flusso di vermi intestinali e  il corpo sciolto  della povera figliola: non le era rimasta una sola goccia di sangue addosso. Ma questo non era ancora nulla, uno spicciolo di latta dato in resto a una moneta d'oro, dato che le toccarono ceci come antipasto e come dolce fave col guscio, perché l'orco, andato a caccia, tornò a casa ben carico di quarti di morti, dicendo: 

- Ora non ti potrai lamentare, moglie mia, che non provveda a te: eccoti una buona provvista di companatico, piglia e abbuffati, e voglimi bene, perché può cascare il cielo, ma io non ti farò mancare il nutrimento.

La povera Porziella, sputando come una donna incinta, girò la faccia dall'altra parte. L'orco, vedendo questa mossa, disse:

- Questo vuol dire gettare le perle ai porci, ma non importa, sta' un po' calma fino a domattina, che sono stato invitato a una caccia di porci selvatici, e te ne porterò un paio, così faremo una bella festa di nozze con i parenti, per consumare l'unione con più piacere. 

Dopo aver detto queste parole, s'inoltrò nel bosco, e mentre lei continuava a piangere alla finestra, passò davanti alla casa una vecchiarella che, sentendosi sbiancare dalla fame, le chiese se poteva darle uno spuntino. La povera giovane le rispose:

- O mia buona donna, Dio sa con che cuore ve lo darei, ma sono prigioniera di questo Belzebù, che non mi porta a casa altro che quarti di uomini e pezzi di morti ammazzati, che non so come possa avere lo stomaco per vedere queste schifezze, e passo la vita peggiore che mai sia toccata a un'anima battezzata. E dire che sono figlia di un re, e sono cresciuta a pappardelle, e sono sempre stata nell'abbondanza...

E dicendo queste parole si mise a piangere come una bambina alla quale hanno rubato la merenda, al punto che la vecchia si sentì intenerire il cuore, e le disse:

- Cresci, bella figliola mia, non distruggere questa bellezza a forza di piangere, che hai trovato la tua fortuna, sono qua per servirti di tutto punto. Sentimi bene: io ho sette figli maschi che a vederli ti sembrano sette cerri, sette giganti, Maso, Nardo, Cola, Micco, Petrullo, Ascadeo e Ceccone, che hanno più virtù della rosa marina. In particolare Maso ogni volta che mette l'orecchio in terra ascolta e sente tutto quello che succede per un raggio di trenta miglia. Nardo, ogni volta che sputa, fa un mare di sapone. Cola fa un campo di rasoi affilati ogni volta che getta in terra un ferretto. Micco fa un fitto bosco ogni volta che getta un legnetto. Petrullo tutte le volte che getta in terra uno schizzo d'acqua fa un fiume terribile. Ascadeo fa sorgere una torre altissima ogni volta che tira un sasso. Ora vedi, con l'aiuto di loro, che sono tutti gentili, tutti amorosi e avranno compassione per il tuo stato, voglio vedere di levarti dalle grinfie di questo orco, perché questo bel boccone succulento non deve andare in bocca a questo bruto. 

- Ma non ci potrebbe essere un tempo migliore di questo, - rispose Porziella - dato che quell'anima nera di mio marito è uscito, e non tornerà prima di stasera, e avremo tutto il tempo per svignarcela e tagliare la corda.

- Stasera non si può fare, - rispose la vecchia, - perchè abito un po' lontano. Basta: domattina io e i miei figli saremo qui tutti insieme per levarti da questo patimento. 

Dopo aver detto questo se ne andò, e a Porziella si allargò il cuore tanto che dormì tutta la notte. Ecco che appena gli uccelli cantarono Evviva il sole, arriva la vecchia con i sette figli, e dopo aver fatto mettere Porziella in mezzo a loro si avviarono verso la città. Ma non si erano allontanati di mezzo miglio quando piazzando l'orecchio a terra Maso gridò:

- Allerta! Olà! A noi! Il nemico! L'orco è già tornato a casa, e non avendo trovato questa figliola, ora sta arrivando qui da noi con la coppola sottobraccio.

Appena ebbe sentito queste parole, Nardo sputò in terra e fece un mare di sapone: arrivato l'orco, e vista questa saponata, corse a casa, e preso un sacco di crusca, prese a strofinarsela sui piedi, tanto e tanto che ce la fece a superare l'ostacolo. Ma maso rimise l'orecchio in terra, e disse: 

- Tocca a te, compagno, sta arrivando.

E Nicola gettato il ferretto in terra fece germogliare un campo di rasoi. Ma l'orco, che si vide sbarrato il passo, corse di nuovo a casa, e si vestì di ferro da capo a piedi, così tornò e superò anche questo ostacolo.

Ma Maso, piazzato ancora una volta l'orecchio a terra, gridò:

- All'armi! All'armi! All'armi! fra poco lo vedi, perché l'orco sta arrivando di gran carriera, che vola!

E Micco, lesto lesto, col legnetto fece crescere un bosco così terribile, che era una cosa difficile da penetrare. Ma appena l'orco arrivò a questo brutto posto, impugnò un coltellaccio che gli pendeva dal fianco, e cominciò a fare crollare di qua un pioppo, di là un cerro, a far precipitare un corniolo da una parte e un sorbo peloso dall'altra. Tanto che in un batter d'occhio, o al massimo in due o tre, aveva atterrato tutto il bosco, e si era liberato da quel viluppo. 

Maso, che teneva l'orecchio sempre pronto, tornò a levare la voce:

- Noi stiamo qui a cincischiare, e invece l'orco ha messo le ali, e ora lo vedi alle nostre spalle.

Petrullo, sentendo queste parole, prese una sorsata d'acqua da un fontanella che pisciava goccia a goccia da una conchiglia di pietra, e spruzzatola in terra, apparve un fiume immenso. Vedendo quest'altro ostacolo, l'orco, che non ce la faceva a bucare quel che loro riuscivano a tappare, si spogliò tutto nudo e a nuoto, con i vestiti in capo, passò dall'altra parte. Maso, che metteva l'orecchio a tutti i buchi, sentì il calpestio dei calcagni dell'orco, e disse:

- Questo nostro affare puzza di marcio, e l'orco sta già battendo i tacchi, fosse il cielo a dirtelo al posto mio, e allora stiamo in campana e facciamo fronte a questo uragano, sennò siamo fritti.

- Non dubitate, - disse Ascadeo, - che ora gliela faccio vedere io a questo brutto miserabile.

E dicendo questo, lanciò un sasso e fece apparire una torre, dove si affrettarono a infilarsi tutti e sbarrarono la porta. Ma quando l'orco arrivò, vedendo che si erano messi in salvo, corse a casa, trovò una scala da vendemmiatore, se la caricò sulle spalle e corse alla torre.

Maso, che stava con l'orecchio teso, sentì da lontano l'orco che arrivava, e disse:

- Ora siamo giunti al moccolo della candela delle nostre speranze: l'ultimo riparo delle nostre vite è Ceccone, perché ora torna l'orco, ed è terribilmente infuriato. Ohimè! Come mi batte il cuore e che brutta giornata prevedo!

- Ma sei proprio un cacasotto! - rispose Ceccone - lascia fare a Menechiello, e vedi se non centro il bersaglio con le mie pallottole.

Non aveva ancora finito di dire queste parol, quando l'orco appoggiò la scala e cominciò ad arrampicarsi, ma Ceccone prese la mira e centrandolo in un occhio lo fece cadere a terra come una pera cotta. Allora sortì dalla torre, e con lo stesso coltellaccio che gli pendeva dal fianco, gli tagliò il collo, come se fosse di cacioricotta. E con grande allegria lo portarono dal re, che andando in sollucchero per aver riavuto la figlia, perché si era pentito cento volte di averla data a un orco, in pochi giorni le trovò un bel marito, e  fece ricchi i sette figli e la mamma, che avevano liberato la figlia da una vita tanto infelice, senza smettere di dichiararsi mille volte colpevole nei confronti di Porziella, perché l'aveva messa in pericolo tanto grande per un capriccio insensato, senza pensare quale errore commette chi cerca


uova di lupo e latte di formica.

Backstage: il pipistrello.

AGGIUNGO UN ALTRO RACCONTO DI BASILE: PETROSINELLA

Notate il tono ironico e canzonatorio che trapela anche nella versione in italiano.

La più recente versione della fiaba è quella della Walt Disney

La  strega nel cartone animato dopo averla rapita ai genitori trattiene la ragazza, in grado di preservarne la giovinezza grazie ai capelli fatati, in una torre creata per lei: ma quanto assomigliano le sue raccomandazioni per indurla a non allontanarsi dalla torre a quelle di una madre troppo apprensiva! Una madre che forse ha paura di confrontarsi con una vecchiaia solitaria?  Rapunzel ovviamente costituisce una rivisitazione moderna dell’eroina, una bambina /donna pronta a tirare fuori dai guai se stessa quanto il suo giovane liberatore, non proprio “principesco”.


Una donna incinta mangia il prezzemolo dell'orto di un'orca e, colta sul fatto, le promette la creatura che partorirà. Nasce Petrosinella, l'orca se la prende e la chiude in una torre. Un principe se la porta via e, con l'aiuto di tre ghiande, evitano l'orca e, portata a casa dall'innamorato, diventa principessa.

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C'era una volta una donna gravida chiamata Pascadozia che, affacciata a una finestra che dava sul giardino di un'orca, vide una bella aiuola di prezzemolo, del quale le venne una tale voglia, che si sentì di svenire; tanto che, non potendo resistere e spiando l'uscita dell'orca, ne colse una manata. Ma, tornata a casa l'orca e volendo fare la salsa, si accorse che c'era passata una falce mariola e disse: "Mi si possa scardinare l'osso del collo se non acchiappo questo manico d'uncino e non lo faccio pentire, così che impari a mangiare nel suo tagliere e a non scucchiarare nelle pignatte altrui". Ma, continuando la povera Pascadozia a scendere nell'orto, una mattina ci fu sorpresa dall'orca che, furiosa e inviperita, le disse: "Ti ho acchiappato, ladra mariola! Forse paghi l'affitto di quest'orto, che vieni senza scrupolo a fregarti le mie erbe? Parola mia, che non ti manderò a Roma per penitenza!" La disgraziata Pascadozia cominciò a discolparsi, dicendo che non per gola o per ingordigia che avesse in corpo il diavolo l'aveva accecata a fare questo peccato, ma perché era gravida e aveva paura che la creatura nascesse con la faccia seminata di prezzemolo; anzi avrebbe dovuto esserle grata perché non le aveva mandato neppure un orzaiuolo. "Altro che parole vuole la sposa!" rispose l'orca "non mi prendi all'amo con queste tue chiacchiere! Tu hai finito di vivere, se non prometti di darmi la creatura che partorirai, maschio o femmina che sia". La povera Pascadozia, per allontanare il pericolo immediato, lo giurò con una mano sull'altra, e così l'orca la lasciò libera. Ma, venuto il tempo del parto, fece una bambina così bella, che era un gioiello, e che, poiché aveva sul petto un ciuffo di prezzemolo, la chiamò Petrosinella; la quale, crescendo ogni giorno di un palmo, quando ebbe sette anni, la mandò dalla maestra. La quale, ogni volta che andava per la strada, e incontrava l'orca, questa le diceva: "Di' a tua mamma di ricordarsi della promessa!" E tante volte ripeté questo ritornello che la povera mamma, non riuscendo più a sopportare questa musica, una volta le disse: "Se incontri la solita vecchia e ti chiede di quella maledetta promessa, tu rispondile: Prenditela!" Petrosinella, che non sapeva della promessa, incontrando l'orca e dicendole questa la solita frase, innocentemente le rispose come le aveva detto la mamma e l'orca, afferratala per i capelli, se la portò in un bosco dove non entravano mai i cavalli del Sole, per non pagare l'affitto per quei pascoli delle ombre, chiudendola in una torre, che fece sorgere con un incantesimo, senza porte, senza scale, con una sola finestrella, attraverso la quale, afferrandosi ai capelli di Petrosinella, che erano lunghi lunghi, saliva e scendeva come fa di solito il mozzo sulle sartie dell'albero. Ora avvenne che, essendo l'orca fuori da quella torre, Petrosinella aveva messo la testa fuori da quel buco e disteso le trecce al sole. Passò di lì il figlio di un principe, il quale, vedendo due bandiere d'oro, che chiamavano le anime ad arruolarsi nell'esercito dell'Amore, e ammirando dentro quelle onde preziose una faccia da sirena, che incantava i cuori, s'incapricciò fuori misura di tanta bellezza. E, inviatole un memoriale di sospiri, fu decretato che la fortezza si arrendesse alla sua grazia. E la trattativa andò così bene che principe ebbe cenni di capo in cambio di baci sulle mani, strizzatine d'occhi in cambio di riverenze, ringraziamenti in cambio di profferte, speranze in cambio di promesse e parole gentili in cambio di salamelecchi. La qual cosa continuata per più giorni, presero tanta confidenza che giunsero alla decisione di incontrarsi da vicino; la qual cosa doveva avvenire di notte (quando la Luna gioca a passera muta con le stelle) lei avrebbe dato un sonnifero all'orca e l'avrebbe tirato su con i suoi capelli. E, rimasti così d'accordo, venne l'ora stabilita e il principe arrivò alla torre, dove, fatte calare con un fischio le trecce di Petrosinella e, afferratosi e due le mani, disse: Alza! E, tirato su, si gettò per la finestrella nella camera, se ne fece un pranzetto di quel prezzemolo in salsa di Amore e, prima che il Sole insegnasse ai suoi cavalli a saltare nel cerchio dello Zodiaco, se ne scese per la stessa scala d'oro a fare i fatti suoi. E la qual cosa ripetendosi molte volte, se n'accorse una comare dell'orca, che, prendendosi il fastidio del Russo, volle mettere il muso nella merda, e disse all'orca di stare attenta, perché Petrosinella faceva l'amore con un certo giovane e sospettava che la cosa fosse andata ancora più avanti, perché vedeva il ronzio e il traffico che c'era, e dubitava che, se si faceva una retata, sarebbero state sfrattate da quella casa prima di maggio. L'orca ringraziò la comare dell'avvertimento e disse che sarebbe stato pensiero suo d'impedire la strada a Petrosinella; a parte che non era possibile che riuscisse a fuggire poiché le aveva fatto un incantesimo, che se non avesse avuto in mano tre ghiande, che erano nascoste in una trave della cucina, era un'opera persa che potesse filarsela. Ma, mentre facevano queste chiacchiere, Petrosinella, che stava con le orecchie spalancate e aveva qualche sospetto sulla comare, sentì tutto il ragionamento; e, appena la Notte stese i vestiti neri per preservarli dalle tarme, venuto come al solito il principe, lo fece salire sulle travi e, trovate le ghiande, che sapeva come usare per essere stata fatata dall'orca, fatta una scala di spago, se ne scesero giù tutti e due e cominciarono dare di calcagno verso la città. Ma, essendo visti mentre uscivano dalla comare, questa cominciò a strillare chiamando l'orca, e fu tanto lo strepito che quella si svegliò e, sentendo che Petrosinella se n'era fuggita, se ne scese per la stessa scala che era legata alla finestrella e cominciò a correre dietro agli innamorati. Li quali, appena li videro arrivare verso di loro più veloce di un cavallo imbizzarrito, si sentirono perduti, ma, ricordandosi Petrosinella delle tre ghiande, ne gettò subito una a terra, ed ecco spuntare un cane corso così terribile (oh, mamma mia!) che abbaiando con tanto di bocca aperta corse verso l'orca per farsene un boccone. Ma quella, che era più furba del diavolo, messa la mano in tasca, ne tirò fuori una pagnotta e, gettandola al cane, gli fece calare la coda e sbollire la furia.

E, tornata a correre dietro a quelli che fuggivano, Petrosinella, vistala avvicinare, gettò la seconda ghianda ed ecco uscire un feroce leone che, sbattendo la coda a terra e scuotendo la criniera, con due palmi di gola spalancata si preparava a inghiottire l'orca. E l'orca, tornando indietro, scorticò un asino che pascolava in un prato e, messasi addosso la sua pelle, corse di nuovo verso quel leone, che, credendola un asino, ebbe tanta paura che ancora fugge. Per la qual cosa, saltato questo secondo ostacolo, l'orca tornò a inseguire quei poveri giovani che, sentendo il rumore dei passi e vedendo la nuvola di polvere che s'alzava fino al cielo, capirono che l'orca arrivava di nuovo. La quale, avendo sempre il sospetto che il leone continuasse a inseguirla, non si era tolta la pelle dell'asino e, avendo Petrosinella gettato la terza ghianda, ne uscì un lupo che, senza dare tempo all'orca di trovare un nuovo espediente, se la inghiottì come fosse un asino. E gli innamorati, finalmente fuori dei guai, se ne andarono piano piano nel regno del principe, dove, con il consenso del padre, lui se la prese in moglie e provarono dopo tante tempeste di difficoltà che

un'ora di buon porto fa dimenticare cent'anni di tempeste.

Infine, propongo la mia lettura del film!

Il racconto dei racconti secondo me.docx
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